Perché è giusto che l’aborto sia protetto

Come si difende una legge o una posizione morale? Costruendo argomenti non fallaci e che resistono alle obiezioni, un po’ come un avvocato costruisce la difesa del suo assistito.

A contare è l’argomento e non chi lo sostiene. L’argomento d’autorità (“X è vero perché lo dice Y”) non funziona. Nemmeno appigliarsi a qualche fonte superiore, come un dio o una legge morale universale fissata da qualcuno. Già da secoli il dilemma di Eutifrone ha bloccato questi tentativi. La razionalità è il nostro dominio di scontro e il criterio per decretare il vincitore.

Offrire un argomento ha dei vantaggi, ma è più faticoso del dire “io c’ero”. Non esclude la presenza di testimonianze o di argomenti emotivi, che possono essere utili e magari facilitare l’empatia nell’uditorio. I vantaggi stanno nel potere di persuasione – anche le testimonianze possono averlo, ma è un potere molto più fragile. Per questa ragione la difesa di Lella Costa della 194 è una testimonianza e non una difesa in senso forte, anche se potrebbe sembrare il contrario dall’attacco: “La legge 194 è una buona legge”. E per questo è pericolosa, perché facilmente impugnabile dagli oppositori. Potremmo dividere gli uditori della testimonianza della 194 di Costa in 3 tipologie. Chi è già convinto che la 194 vada difesa: la lettura sarà superflua, magari avrà voglia di scrivere che è meglio argomentare che limitarsi a testimoniare.

Chi è indeciso, perché non sa e perché non riesce a costruire ragioni forti per una posizione o l’altra: la lettura sarà scarsamente utile a tal fine, o meglio potrebbe servire a convincere ma non a difendere (vedi tipologia 3). Chi è contrario: costui potrebbe demolire facilmente la difesa della 194 se messa in questi termini. Sarebbe come entrare nell’accampamento nemico mentre tutti dormono. Costa non tira fuori una sola ragione forte per difendere la possibilità di abortire legalmente: che sia doloroso o che serva rispetto sono descrizioni emotive, ma un detrattore della 194 potrebbe agilmente demolire la liceità dell’aborto. Perché? Perché molte altre azioni sono dolorose e meritano magari rispetto, ma non potremmo aspirare a farle essere legali o moralmente ammissibili. Perché nulla si è detto sullo statuto embrionale e nulla sui diritti e sui conflitti che dobbiamo affrontare quando una donna decide di interrompere una gravidanza.

Fermarsi sul piano emotivo (“ci sono passata due volte”) è rischioso. Se non segue una difesa razionale, il castello di carta crolla al primo sospiro. Ecco perché è necessario costruire argomenti razionali da poter difendere di fronte a chi la 194 vorrebbe eliminarla, a chi vorrebbe rendere l’aborto illegale e farlo affondare in una condanna morale senza appello. A chi in nome della difesa della vita (prolife) vuole cancellare la scelta (nochoice) rianimando argomenti che puzzano di muffa. Il diritto è una protezione formale (una donna può interrompere la gravidanza in determinate circostanze), le motivazioni e le ragioni di ogni donna non si possono appiattare e ridurre alla tua, offerta come esempio universale, accompagnata da un sorriso paternalistico. Gli stati mentali e i vissuti delle donne non coincidono solo perché hanno abortito, cioè hanno compiuto la stessa scelta. E questo è il punto da difendere: la scelta.
Ogni donna deve poter scegliere. Judith Jarvis Thomson lo ha spiegato molto bene 40 anni fa in un articolo che ancora in molti non hanno letto (A Defense Of Abortion, 1971, Philosophy & Public Affairs, 1, 1).

Caterina Botti, molti anni più tardi, scrive (Sull’aborto, 2009, Iride): “la questione dello statuto morale dell’embrione è mal posta, se posta in modo indipendente dalla donna, e che uno dei pochi modi che abbiamo di risolvere la questione dello statuto morale dell’embrione sia quello di volgerci alla donna che lo porta in grembo. In questa ottica, l’aborto non è dunque un atto immorale, ma al contrario un gesto o una scelta che nasce da un contesto di inevitabile e peculiare responsabilità”. Anche la Corte nel 1975, nella sentenza che ha depenalizzato l’aborto e ha preceduto la legge 194, aveva centrato il bersaglio: il bilanciamento tra diritti nella peculiare e unica situazione che è la gravidanza. “La scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.”

Se una donna è incinta non è moralmente possibile costringerla a portare avanti la gravidanza. Sarebbe anche di fatto difficile farlo: la si controlla a vista? La si mette in una clinica o in prigione? Non ci si può dimenticare che la protezione dell’embrione o del feto passa sopra all’autodeterminazione della donna e le sue decisioni non possono essere ignorate. Significativo, al riguardo, il caso di Samantha Burton sul New England Journal of Medicine di pochi giorni fa (Court-Ordered Care — A Complication of Pregnancy to Avoid, june 14, 2012): “why should pregnancy diminish a competent adult woman’s right to refuse care? Citizens have no legal duty to use their bodies to save one another; even parents have no such legal duty to their children. It follows, then, that “a fetus cannot have rights in this respect superior to those of a person who has already been born” (In re A.C.).”. Prima di tutto quello rimane il corpo su cui abbiamo la possibilità di scegliere. Si può scegliere in molti modi diversi. Anche di non curarsi e di lasciarsi morire pur di portare avanti una gravidanza. Anche di interrompere una gravidanza.

Avere la presunzione di parlare a nome di tutte le donne – dal punto di vista emotivo e non giuridico, quello si deve fare perché dovremmo essere tutti uguali sul piano dell’accesso a un servizio – somiglia alla negazione della scelta, la cui diversità deriva precisamente dalle differenze individuali. Differenze che valgono anche sulla reazione all’aborto.
Assumere che tutte le donne che abortiscono vorrebbero quel figlio è cieco paternalismo, è una forma di quella stantia identificazione tra donna e madre. Madre sempre e comunque. Leggere farebbe bene: si scoprirebbe che molte donne scelgono. A volte è doloroso, inconsolabile, a volte conflittuale, altre è una liberazione. Se si è così ciechi da non vederlo, si continua a sventolare il fantasma del dramma sempre e comunque. Del dramma intrinseco, cancellando tutto il resto.

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