«Incubatori e politica continuano a rincorrere solo ciò che è “innovativo”»

L'intervista a Carlo Borgomeo, esperto di sviluppo locale e di politiche di promozione di imprenditorialità

20/06/2024 di Enzo Boldi

Una deframmentazione che sembra il simbolo del Paese. Una costellazione sparsa di realtà che hanno come fine ultimo quello di contribuire al successo di una nuova realtà aziendale. Questo è il quadro, non proprio esaltante, che raffigura la situazione degli incubatori certificati (e non) in Italia. Fondi pubblici a cui si attinge a piene mani attraverso delle procedure che sembrano essere basilari, ma che spesso e volentieri si scontrano con un reale criterio di meritocrazia nelle decisioni premianti. Nel monografico di oggi, Giornalettismo ha approfondito molti degli aspetti legati al mondo degli incubatori in Italia e, per concludere, abbiamo raccolto le parole di Carlo Borgomeo, esperto di sviluppo locale e di politiche di promozione di imprenditorialità.

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Siamo partiti da fulcro della questione: cos’è un incubatore? «La definizione è abbastanza complessa, perché le esperienze sono diverse. In ogni caso, si può dire che l’incubatore è un’iniziativa che punta a creare le migliori occasioni di contesto per una nuova azienda. Occasioni di contesto, ovvero la location, l’assistenza, i rapporti con il mondo della ricerca. Non è un caso che molti incubatori nascano all’interno dell’Università. E questo significa, nei casi migliori, anche avere dei rapporti privilegiati con il mondo del credito e della finanza. Quindi la definizione che possiamo dare è questa: creare tutte le condizioni di contesto più favorevoli perché un’idea imprenditoriale diventi realtà».

Carlo Borgomeo ci spiega il mondo degli incubatori d’impresa

E nel panorama italiano, ne esistono di due tipi (tralasciando la verticalità dei singoli incubatori): quelli certificati e quelli non certificati. Ma qual è la differenza? «La risposta è una risposta burocratica. La differenza sta nel fatto che alcuni hanno richiesto la certificazione e altri non l’hanno fatto. Noi abbiamo sicuramente dei casi in cui ci sono incubatori non certificati che da un punto di vista qualitativo sono nettamente migliori di altri incubatori certificati».  

Differenze sostanziali che, dunque, non sempre si rivelano elementi di merito o demerito. Carlo Borgomeo, però, ha voluto fare una precisazione su ciò che, secondo lui, dovrebbe essere il punto di forza di un incubatore d’impresa in Italia: «Uno dei segreti è quello che – secondo il mio punto di vista – fare degli incubatori non specialistici. Cioè non dedicati a un solo settore/comparto. La contaminazione tra diversi settori è, per me, un dato sempre positivo».

Il ruolo degli Atenei

Tra le molteplici realtà presenti in Italia, ci sono anche quegli incubatori che si trovano all’interno delle Università. Si tratta realmente di un punto di forza per far emergere quelle idee imprenditoriali nate in ambito accademico: «Questa è proprio un’evoluzione naturale e positiva. Gli Atenei si pongono il problema di trasferire al mondo delle imprese l’accumulazione di ricerche che hanno fatto. Le misure tradizionali non sempre funzionano, a loro partono direttamente da loro. È una bella iniziativa. Ovviamente, però, non tutti possono celebrare fasti di successo, ma comunque tanti vanno bene». 

Poi ci sono anche quelli “privati”, che non hanno contatto (diretto) con il pubblico, ma che possono rivelarsi molto potenti e performanti: «Noi abbiamo dei casi di incubatori privati che sono assolutamente forti – ha proseguito Borgomeo a Giornalettismo -. Di solito dipende dall’intraprendenza e dalla lungimiranza di chi li crea. Ovviamente, questo successo dipende dalle connessioni che hanno con il sistema produttivo, con i servizi, con le banche e con i centri di ricerca».

L’etichetta “innovazione”

Quando si parla di incubatori (certificati e non) si fa riferimento a imprese che puntano all’innovazione. Ma non è sempre questa la carta vincente da inseguire, secondo Borgomeo. Anzi, occorrerebbe che anche la politica comprendesse – con decisioni strutturali – che il mondo delle aziende non può solamente rincorrere ciò che viene etichettato come “innovativo”: «Personalmente ritengo che sia una cosa molto importante, ma che c’è una enfatizzazione esagerata. Io penso che lo sviluppo sia fatto di startup innovative, ma anche di startup non innovative senza uno sbilanciamento. Per fare un esempio, è come se si paragona l’utilizzo di una freccia: ci piace lavorare sulla punta della freccia che dà la direzione, eccetera. Però c’è tutta la freccia da realizzare. Immaginare che tutto debba essere orientato a cose assolutamente nuove, secondo me in qualche caso può essere una limitazione. Noto che nelle politiche, soprattutto in quelle pubbliche, c’è uno spostamento un po’ troppo pronunciato verso l’area della innovazione a tutti i costi».

L’analisi di Borgomeo prosegue con una riflessione su un’altra criticità che può emergere all’interno degli incubatori d’impresa in Italia: Spesso, soprattutto in quelli dove c’è più “pubblico”, c’è una scarsa flessibilità. Poi, in alcuni pesa il fatto della possibilità di ricorrere agli incentivi. Ripeto, va bene entro certi limiti, ma se l’incentivo è l’obiettivo e non è uno strumento, non va bene».

Queste dinamiche, poi, si riflettono anche sulla “geografia” degli incubatori nel nostro Paese: «In Italia è tutto asimmetrico e anche gli incubatori seguono questa dinamica. In un tessuto produttivo più debole anche in un sistema di ricerca più debole è chiaro che gli incubatori al Sud sono meno forti e meno presenti. Al Sud, molte volte, gli incubatori nascono anche sull’onda di incentivi pubblici che sono utili, ma non sempre sono positivi.  Se l’incentivo è quello che ti fa fare un’iniziativa, non va bene. Se l’incentivo ti aiuta va bene».

Carlo Borgomeo: il ruolo della politica

Un ruolo fondamentale ce l’ha, ovviamente, la politica: «Occorre riempire un vuoto – spiega Carlo Borgomeo -. Oggi il nostro sistema di sostegni pubblici ha una discreta presenza nel cosiddetto self-employment, nell’auto-impiego. La struttura del credito e della finanza non accompagna, non è coerente con l’enfatizzazione che noi facciamo del sistema delle piccole. Ancora oggi, una piccola impresa non sufficientemente patrimonializzata fa una fatica terribile a ottenere i crediti e anche tutti i nuovi strumenti finanziari hanno sempre target che partono dalle medie imprese fino alle grandi e fanno una gran fatica a supportarli. Nonostante in Italia ci sia un’iniziativa molto positiva, il Fondo Centrale, che per le piccole imprese garantisce fino all’80%». Ma dunque, in Italia c’è una scarsa individuazione del merito nell’assegnazione dei fondi? «Non penso ci sia poca meritocrazia, salvo che per alcune leggi di incentivazione che premiano gli aspetti formali rispetto agli aspetti di merito. Questo, però, vale anche per le grandi imprese. Sarà il terrore della giustizia, sarà il terrore delle procedure, però ritengo che siamo in una offerta di agevolazioni che è sbilanciata sulle procedure più che sulle valutazioni di merito».

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