Per quale legge italiana Meta avrebbe dovuto pagare l’IVA sui dati degli utenti?

Non vi è un solo riferimento normativo, ma occorre sintetizzare alcuni aspetti legati ai "contratti" e alle sentenze precedenti

11/12/2024 di Enzo Boldi

Dal 2015 al 2021, ci sarebbe stata un’evasione fiscale (per mancata dichiarazione e conseguente mancato versamento dell’IVA) di Meta in Italia. Il tema è quello dei dati personali utilizzati come merce di scambio per accedere – “gratuitamente” – alle piattaforme social (in particolare Facebook). Dunque, il più classico dei “do ut des” che fa parte delle dinamiche commerciali, come quelle identificate sotto la voce di contratto sinallagmatico. Ma a quali norme italiane si sta appigliando la Procura di Milano per condurre questa indagine appena chiusa?

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Tutto, infatti, parte dall’interpretazione da parte degli inquirenti del contratto sottoscritto tra la holding Meta (all’epoca dei fatti si chiamava ancora Facebook) e i singoli utenti italiani. Nello specifico, la Procura di Milano sottolinea che Meta

«per consentire agli utenti l’utilizzo del proprio software e dei correlati servizi digitali, acquisisca e gestisca, per scopi commerciali, dati, informazioni personali e interazioni sulle piattaforme di ciascun iscritto, così da instaurare con i fruitori del servizio, in virtù della connessione diretta in termini di proporzionalità quantitativa e qualitativa tra le contrapposte prestazioni, un rapporto di natura sinallagmatico». 

Ed è proprio la sussistenza di questa tipologia di contratto che prevede la fruizione gratuita (in questo caso delle piattaforme social dell’azienda di Menlo Park) vincolata allo scambio dei dati personali degli utenti a rappresentare un sinallagma.

Lo scambio sinallagmatico

Ma cosa si intende, esattamente, per scambio (o contratto) sinallagmatico? Si parla, di fatto, della base della locuzione latina “do ut des“: io do a te affinché tu dia a me. Dunque, un vero e proprio scambio che, a livello commerciale, viene individuato come scambio di merci. Nel caso specifico, dunque, gli inquirenti evidenziano come il “dare” da parte di Meta (Facebook) sia vincolato al fatto che gli utenti diano in cambio i loro dati personali. Da qui è arrivato il sillogismo sui dati utilizzati come merce di scambio. Dunque, commercializzati. Dunque in grado di compartecipare alla formazione dell’imponibile. Dunque soggetti al versamento dell’IVA (all’aliquota del 22%). Dunque, il calcolo di un’evasione dell’IVA di circa 887 milioni di euro nei sei anni presi in esame dall’indagine, dal 2015 al 2021).

Evasione fiscale Meta, a quali leggi fa riferimento l’accusa

Questa lunga premessa ci introduce al tema oggetto dell’articolo: a quali leggi italiane fa riferimento l’accusa di mancato versamento dell’IVA da parte della holding di Mark Zuckerberg? Detto che tutto è partito dalla sentenza del Consiglio di Stato del 29 marzo 2021 che ha confermato parte delle contestazioni mosse – nel novembre del 2019 – dall’AGCM sulle violazione degli articoli 21, 22, 24 e 25 del Codice del Consumo. Il tema, ovviamente, era quello relativo alla scarsa trasparenza da parte dell’azienda di Menlo Park nelle comunicazioni sull’utilizzo dei dati personali degli utenti in fase di iscrizione alla piattaforma social Facebook.

Da qui, parte il riferimento all’identificazione dello scambio sinallagmatico e, dunque, della natura contrattuale tra l’offerta del servizio (gratuito) della fruizione del social network in cambio dell’utilizzo dei dati personali degli utenti. E si arriva, finalmente, a quanto indicato dall’articolo 11 del DPR numero 633 del 1972 (“Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”), quello relativo al “Operazioni permutative e dazioni in pagamento”:

«Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate. La disposizione del comma precedente non si applica per la cessione al prestatore del servizio di residuati o sottoprodotti della lavorazione di materie fornite dal committente quando il valore dei residuati o sottoprodotti ceduti, determinato a norma dell’art. 14, non supera il cinque per cento del corrispettivo in denaro».

Dunque, ecco il riferimento normativo su cui si basa l’intera indagine. Ovviamente, si tratta di un percorso molto intricato e ora starà ai giudici confermare l’eventuale condotta fiscalmente impropria da parte della holding di Mark Zuckerberg.

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