Il fenomeno delle “sped-up songs” sui social
Sempre più utenti, compresi i content creator, utilizzano queste soluzioni "accelerati" per i propri contenuti. E sono proprio queste canzoni ad essere al centro della disputa tra UMG, Believe e TuneCore
08/11/2024 di Enzo Boldi
Tutto è diventato frenetico. Abbiamo l’esigenza di ascoltare un messaggio vocale (a volti lunghissimi e interminabili) accelerando la velocità di riproduzione. Abbiamo l’esigenza di ascoltare e utilizzare contenuti musicali “cancellando” – spesso anche dalla memoria – il ritmo originale e “sostituendolo” con l’azzeramento delle pause attraverso un principio di accelerazione digitale. Da qualche mese, infatti, sono diventate virale – proprio a mo’ di trend – sulle principali piattaforme social le cosiddette “sped-up songs”, concetto riassumibile nel concetto di “canzoni accelerate”. Ma è solo una tendenza del momento?
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Proprio questa dinamica rappresenta lo sfondo della causa intentata dalla più grande etichetta musicale mondiale, la Universal Music Group (ma è sostenuta anche da ABKCO Music & Records e Concord Music Group), nei confronti della francese Believe e – soprattutto – della sua sussidiaria TuneCore che gestisce una piattaforma per l’auto-pubblicazione delle canzoni da parte di artisti indipendenti ed emergenti. All’interno dei cataloghi musicali di queste ultime, infatti, ci sarebbero numerose canzoni – che rispondono al nome di artisti che utilizzano nomi di artisti noti, leggermente modificati come Jutin Biber e Llady Gaga – che sono state messe a disposizione delle librerie social (TikTok, YouTube e Instagram) e di quelle dei principali servizi di streaming musicale (Apple Music e Spotify) attraverso contratti di licenza di utilizzo. Dunque, si parla di royalties legate all’ascolto e l’utilizzo di canzoni – secondo le accuse – modificate (e accelerate), violando il diritto di proprietà intellettuale.
Sped-up songs, il nuovo fenomeno sui social network
Ma di cosa si parla quando si citano le “sped-up songs”? E, soprattutto, perché si tratta di un fenomeno globale? Partiamo da una base: il trend è partito da TikTok che fin da quando si chiamava Musical.ly aveva al centro dei contenuti non solamente il cosiddetto “lip sync”, ma anche i cosiddetti “balletti”. Molti di questi avvenivano utilizzando versioni accelerate di molti brani. Alcuni di questi hanno addirittura ottenuto un successo maggiore rispetto alla versione originale o hanno “ridato vita” a canzoni finite nel cassetto dei ricordi.
Ma torniamo all’attualità. Le canzoni accelerate vengono create rimuovendo le pause all’interno di un brano (in alcuni casi alzando anche il “tono”, provocando una ulteriore alterazione della voce del cantante) in modo tale da offrire un ritmo incalzante. Attualmente in Italia c’è il fenomeno del ritornello della canzone “Volare” di Fabio Rovazzi e Gianni Morandi, tornata a essere virale – nell’utilizzo – su TikTok. Ma ci sono anche playlist su Spotify ed Apple Music all’interno delle quali troviamo queste sped-up songs.
E gli artisti cosa fanno? E le etichette musicali? Questo è un tema molto delicato. Seguendo il principio di legalità – ovvero la corretta cessione delle royalties per l’utilizzo -, molti artisti hanno tratto un beneficio da questo fenomeno, facendo diventare virali e di tendenza dei brani che prima non lo erano. O che, semplicemente, non lo erano più. Stesso discorso vale anche per le etichette e case discografiche. Ed è qui che, però, sarebbe avvenuto l’inghippo al centro della denuncia depositata da Universal Music Group: alcuni “furbetti” avrebbero caricato su piattaforme di auto-pubblicazione e auto-promozione (come TuneCore) versioni accelerate di brani di cui non avevano la proprietà intellettuale.