La causa da 500 milioni di dollari sulle “canzoni accelerate”
Avete presente il trend musicale che viene cavalcato moltissimo sia su Instagram, sia su TikTok? Ma il mondo delle speed-up songs potrebbe essere più torbido delle apparenze
08/11/2024 di Gianmichele Laino
Quello che all’apparenza può sembrare un divertente espediente per migliorare l’editing di video brevi su TikTok e Instagram potrebbe in realtà nascondere un sommerso che vale centinaia di migliaia di dollari. Stiamo parlando del fenomeno delle speed-up songs, ovvero di quelle canzoni accelerate o remixate che, spesso, fanno da sfondo ai video dei content creator. La brevità dei video su TikTok o nei reels di Instagram, infatti, spesso rappresenta un cruccio per i produttori di contenuti, se le canzoni che scelgono per accompagnarli non hanno il taglio giusto per adattarsi alle immagini. In molti casi, la soluzione è rappresentata da una canzone accelerata: fenomenali poteri cosmici, in un minuscolo spazio vitale. Il fatto che un brano sia riprodotto a una velocità 2x o 4x potrebbe essere un toccasana in diverse circostanze. Ma ci siamo mai chiesti se queste versioni accelerate o remixate delle più famose canzoni al mondo siano legali? La causa intentata da Universal Music ci apre un mondo.
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La causa di Universal Music sulle speed-up songs
La più grande major discografica al mondo – insieme a tante altre etichette – ha presentato una istanza di fronte al tribunale americano del Southern District di New York contro Believe, un’azienda di produttori musicali indipendenti francesi che ha come affiliata TuneCore. Le accuse sono molto chiare: tra gli artisti che fanno parte di questo ecosistema musicale, infatti, ce ne sono tanti che si presentano con nomi contraffatti (“Kendrik Laamar,” “Arriana Gramde,” “Jutin Biber”, “Llady Gaga”) che propongono le più famose canzoni degli artisti originali in versione accelerata. Questi brani, poi, sono inseriti nei cataloghi dei social network o delle piattaforme di streaming (TikTok e Instagram, certamente, ma anche YouTube e Spotify ad esempio) e vengono messe a disposizione degli utenti. La raccomandazione del contenuto e la regola del trend fa il resto: se uno di questi brani diventa virale è molto semplice che venga utilizzato (anche inconsapevolmente) da più utenti e creatori di contenuti.
La Universal ha messo nero su bianco quella che, per lei, è la principale responsabilità di Believe: «Sebbene Believe sia pienamente consapevole che il suo modello di business è alimentato da una pirateria dilagante – si legge nel ricorso -, ha evitato misure di base per prevenire violazioni del copyright e ha chiuso un occhio sul fatto che il suo catalogo musicale fosse pieno di registrazioni sonore che violavano il copyright». Da questo punto di vista, come vedremo approfonditamente in seguito, Believe ritiene di avere le spalle coperte, dal momento che fa firmare ai propri “artisti” dei contratti che sollevano la casa madre e le sue affiliate (come TuneCore) da qualsiasi responsabilità nei confronti delle terze parti.
Da questo punto di vista, i giudici newyorkesi dovranno far fronte a due precedenti: il primo è quello che ha visto i brani di Believe così composti (speed-up songs o remixati) segnalati su YouTube, perché in grado di aggirare il suo sistema di content ID; il secondo è quello di un’altra etichetta che, però, aveva al suo interno un solo artista che riproduceva versioni diverse di brani celebri senza autorizzazioni. In quest’ultima fattispecie, all’artista Trefuego erano stati chiesti 800mila dollari di danni dalla Sony per la sua attività irregolare: di questa cifra soltanto una parte residuale è stata versata dall’etichetta discografica di Trefuego, proprio perché quest’ultima aveva un accordo simile a quello della Believe con i suoi cantanti. Varrà lo stesso peso di giudizio?